Il dato è contenuto nel “Rapporto sullo Stato sociale 2007” presentato a Roma alla Sapienza. Bisogna infatti considerare anche le imposte che vengono pagate sulle pensioni. I poveri in Italia sopra la media europea
Sono i pensionati che finanziano il bilancio pubblico, e non viceversa. L’affermazione, decisamente controcorrente, è contenuta nel “Rapporto sullo Stato sociale 2007”, presentato oggi, 27 giugno, all’università di Roma La Sapienza. La tesi è sostanziata da una tabella a pagina 231 del Rapporto. Il saldo tra spesa e prestazioni è negativo per circa 50 miliardi di euro, ma 30 di questi sono dovuti a prestazioni assistenziali (quelle a fronte delle quali non ci sono contributi versati e dovrebbero dunque essere poste a carico della fiscalità generale); rimarrebbe un deficit di 20 miliardi, ma lo Stato ne incassa quasi 28 dalla normale tassazione sul reddito dei pensionati. Alla fine, dunque, il saldo risulta attivo per il bilancio pubblico, per quasi 7.300 miliardi.
Il Rapporto, curato come ogni anno dall’economista Felice Roberto Pizzuti e promosso dal Dipartimento di economia pubblica della Sapienza e dal Criss (Centro di ricerca interuniversitario sullo Stato sociale, presieduto da Maurizio Franzini), contesta a suon di cifre una serie di affermazioni considerate scontate nel dibattito economico-politico. Sul costo dell’abolizione dello “scalone” previdenziale, per esempio: negli attuali conteggi, osserva il Rapporto, non si considera che la prospettiva dello “scalone” ha già modificato i comportamenti, accelerando la “fuga” dal lavoro di chi ha potuto permetterselo, mentre molti sono comunque obbligati a rimanere il più possibile – a prescindere da qualsiasi norma – per procrastinare la riduzione del reddito che avranno andando in pensione. Se si rifanno i conti tenendo conto di questi fattori, il costo dell’abolizione – o della trasformazione dello scalone di tre anni in tre scalini da un anno – risulta assai ridotto.
Quanto alla famosa “gobba”, cioè l’aumento della spesa per pensioni previsto intorno al 2030, era stata calcolata stimando l’ingresso di 150.000 lavoratori stranieri l’anno, ma la media degli ultimi anni è stata un numero più che doppio: tutti lavoratori che verseranno contributi che non erano stati considerati, facendo così sparire la “gobba”.
Quella sulla previdenza è solo una delle sezioni del rapporto, che si occupa anche di sanità, inclusione sociale, formazione, problemi del mercato del lavoro. Si rileva per esempio che le persone a rischio di povertà sono da noi oltre il 19%, contro una media europea del 16; ma nelle regioni meridionali l’incidenza della povertà è ben cinque volte maggiore rispetto alle regioni del nord.
Quanto poi al mercato del lavoro, la parola d’ordine in tutta Europa è da alcuni anni “flexicurity”, cioè aumentarne la flessibilità ma nello stesso tempo garantire alle persone una certa sicurezza, sia come sostegno economico nei periodi di disoccupazione, sia come formazione e altre politiche attive per il passaggio ad un nuovo lavoro. In Italia, però, è stata attuata solo la prima parte di questo programma, ossia la flessibilità del lavoro: l’indicatore Ocse sul grado di protezione legislativa del lavoro colloca il nostro paese nella metà più bassa della classifica. A fronte di questo, le garanzie sono del tutto insufficienti e per intere categorie semplicemente inesistenti. Oltretutto, le categorie meno protette nel mondo del lavoro non staranno meglio quando andranno in pensione, perché con i loro versamenti bassi e discontinui avranno assegni che li collocheranno senz’altro entro i livelli di povertà. Insomma, conclude il Rapporto, da noi la flessibilità viene vista solo come un modo per ridurre il costo del lavoro, a vantaggio, quindi, di imprese poco competitive e poco innovative, invece di essere utilizzata per rendere più dinamico il sistema produttivo.
Il Rapporto, insomma, offre al dibattito una serie di dati e di analisi che, come ha osservato Luciano Gallino, uno dei relatori, dovrebbero essere alla base dell’attuale discussione sulle riforme dello Stato sociale, mentre sembra che ben pochi le conoscano.
(28 giugno 2007)
Pensioni: Ferrero, La Previdenza ha finanziato lo Stato con 42 Mld in 6 anni
Come sempre, secondo il ministro per la solidarieta' Paolo Ferrero ''nelle ore cruciali delle trattative a destra e manca si sfornano dati sul disastro rappresentato dalla spesa pensionistica''. Ma queste grida d'allarme, ''buon ultima quella della Corte dei Conti'' secondo il ministro ''sono infondate'' e, anzi, il bilancio dello Stato ''e' stato addirittura finanziato dai contributi previdenziali dei lavoratori''. Nella tabella che Ferrero illustra in una nota, estratta dal Rapporto sullo Stato sociale del 2007, redatto dal Dipartimento di economia pubblica dell'Universita' la Sapienza di Roma e presentato oggi, si evince infatti che ''la spesa previdenziale - spiega Ferrero - al netto della spesa assistenziale (che e' notoriamente a carico della fiscalita' generale e non dei soli lavoratori) e delle tasse pagate dai pensionati sulle pensioni, e' inferiore ai contributi versati dai lavoratori''. Un 'finanziamento diretto' della previdenza nei confronti delle casse dello Stato che ammonta a 4,540 miliardi per il 2000; 9,811 miliardi per il 2001; 7,463 miliardi per il 2002; 5,845 miliardi per il 2003; 7,514 miliardi per il 2004; 7,283 miliardi per il 2005. ''Altro che costo delle pensioni - commenta Ferrero -. Solo negli ultimi 6 anni il sistema previdenziale ha dato al bilancio dello Stato ben 42,456 miliardi''. E' evidente, per il ministro della Solidarieta', ''che le risorse interne al sistema per togliere lo scalone ci sono, senza contare che l'aumento dello 0,3% dei contributi previdenziali deciso dalla finanziaria di quest'anno - come aveva spiegato oggi nel suo intervento - produce un gettito maggiore di circa 1 miliardo all'anno e che la razionalizzazione della gestione dei diversi Enti previdenziali dara' un gettito di almeno 750 milioni l'anno''. Da questi dati risulta evidente come i margini economici per chiudere un positivo accordo con i sindacati che tolga di mezzo il famoso scalone ci sono e per questo Ferrero ritiene necessario ''che il Governo faccia un passo nella direzione prevista dal programma e richiesto dalle organizzazioni sindacali, al fine di chiudere positivamente questa vertenza''.
(ASCA) - Roma, 27 giugno
Gallino: Il professore di Sociologia all’Università di Torino invita a guardare i bilanci dell’Inps: «Permettono l’abolizione dello scalone, a patto che si separi l’assistenza dalla previdenza. Il fondo dipendenti pubblici è in attivo»
E' possibile abolire lo "scalone" Maroni se si procede alla «separazione tra assistenza e previdenza». Luciano Gallino guarda al dibattito politico di queste settimane con una buona dose di scetticismo e critica. «Invece di partire dai dati, si parte dall’opzione politica, quella di ridurre le pensioni pubbliche per favorire quelle private e poi si cerca di ornare quell’opzione con i ti scelti a seconda delle proprie convenienze...Bisognerebbe fare il contrario».
Professor Gallino,lo stato dei conti pubblici giustifica la scelta di non abolire lo ”scalone” Maroni, come sostenuto dall’ala riformista del governo?
Certamente è possibile abolire lo “scalone”, ma bisogna riqualificare i bilanci previdenziali. Sulla previdenza pesano le gestioni assistenziali, che già la legge 67 dell’88 voleva separare: l’obiettivo è rimasto lettera morta. Queste gestioni o spese assistenziali, a fronte delle quali non ci sono contributi versati e che sono dunque a carico della fiscalità generale, costano allo Stato 30 miliardi di euro l’anno, il 2 per cento del Pil. Si potrebbe obiettare che, tolti questi trenta miliardi, resta un deficit di 20 miliardi di euro, dato che il saldo tra spesa e prestazioni è negativo per circa 50 miliardi di euro. Ma non è così, in quanto il restante deficit rientra in forma di tassazione sulle pensioni. In Italia le pensioni sono tassate come redditi ordinari, dunque, a conti fatti, su quei 20 miliardi di uscite lo Stato ne incassa quasi 28 mld dalla normale tassazione sul reddito dei pensionati. Perciò alla fine, il saldo risulta attivo per il bilancio pubblico, per quasi 7.300 miliardi. Lo dice un rapporto appena pubblicato dall’Università La Sapienza di Roma sullo “stato sociale 2007”: sono i pensionati che finanziano il bilancio pubblico e non il contrario.
Come si spiega il fatto che queste considerazioni siano assenti dal dibattito politico?
Il bilancio dell’Inps è complicato da studiare, il primo tomo è formato da 933 pagine...
Pigrizia,semplice ignoranza o c’è il dolo?
E’ in atto uno scontro esclusivamente politico. Qualcuno ha deciso che bisogna tagliare le pensioni pubbliche a favore di quelle private partendo da un’opzione politica e decorandola con dati scelti secondo le proprie convenienze, tacendo sul resto. Andrebbe detto invece che tra i fondi previdenziali dell’Inps l’unico ad essere in attivo è quello dei lavoratori dipendenti: risulta in passivo solo perchè gli accollano i disavanzi di ex fondi tra cui anche quello dei Dirigenti d’azienda. Una discussione seria dovrebbe partire dall’analisi dei dati per poi scegliere l’opzione politica, non il contrario.
Chi genera il rovesciamento della discussione? Ci sono lobby che spingono per il rafforzamento della previdenza privata?
E’ probabile, ma non ci sono le prove. Quello che è evidente è che si fanno affermazioni e si elaborano piani senza il fondamento di dati reali di economia. Attenzione: non è manipolazione dei dati, ma la scelta, tra la migliaia di questi, di quelli che giustificano una tesi abbracciata anni fa e impermeabile ad argomenti razionali.
E’successo anche con la riforma Dini?
Sì, nel ’95 quella riforma ha generato il meccanismo di frattura generazionale che fa discutere oggi.
Anche la sinistra e i sindacati studiano poco i dati?
Direi di sì. Mi meraviglio perchè il rapporto dell’Università di Roma che ho citato non venga usato. E’ molto sfruttabile. E poi perchè non usano l’argomentazione sul fatto che l’unico fondo in attivo è quello dei dipendenti pubblici? E’ strano, ma non lo fanno.
Ha previsto che questo governo non riuscirà ad approvare una seria legislazione sul lavoro. Sulle pensioni cosa ci si può aspettare?
Ci si può aspettare la riduzione dello scalone e l’abolizione della revisione dei coefficienti, che è un altro modo per ridurre le pensioni pubbliche. Sul piano Damiano si può discutere, ma ormai è in corso una prova di forza che ha poco a che fare con la razionalità.
Angela Mauro su Liberazione del 6 Luglio 2007
-------------------------------------
Per approfondimenti (suggeriamo di saltare i primi 30 minuti):
Documentazione audiovisiva della presentazione del "Rapporto sullo Stato sociale 2007" tenutosi all’università di Roma La Sapienza e pubblicato sul sito di Radio Radicale
Nessun commento:
Posta un commento